Sez. 6,
Sentenza
n. 20514
del 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente - del 28/04/2010
Dott. IPPOLITO Francesco - rel. Consigliere - SENTENZA
Dott. LANZA Luigi - Consigliere - N. 902
Dott. COLLA Giorgio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FAZIO Anna Maria - Consigliere - N. 22969/2009
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Arman Ahemed El Hissini Helmy, n. a Quena (Egitto) il 14.1.1961;
Maaouy Lotti Ben Sadok, n. a Tunisi (Tunisia) il 28.2.1966;
Ben Yahia Mouldi Ben Rachid, n. a Tunisi (Tunisia) in data
11.4.1971;
Hekiri Hichem Nem Mohamed, n. a Tunisi (Tunisia) il 18.3.1969;
Kneni Kamel, n. a Aroussa (Tunisia) il 7.5.1969;
Sahraoui Nessun Ben Romdhane, n. a Bizerta (Tunisia) il 3.8.1973;
avverso la sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano, emessa
il 10.11.2008;
- letti i ricorsi e il provvedimento impugnato;
- udita in pubblica udienza la relazione del cons. Dott. IPPOLITO
Francesco;
- udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del
sostituto procuratore generale, Dott. MARTUSCIELLO Vittorio, che ha
concluso per la declaratoria d'inammissibilità del ricorso di
Maaouy Lofti; il rigetto dei ricorsi di Arman, Ben Yahia e
Sahraoui; l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei
confronti di Hekiri, nonché nei confronti di Kneni limitatamente
alla misura dell'espulsione, con rimessione al giudice di rinvio
dell'applicazione di altra misura di scurezza;
- uditi i difensori (avv. C. Scambia per Arman, avv. C. Corbucci,
anche in sostituzione dell'avv. Clementi, per Maaouy Lofti e
Kneni, avv. G. De Carlo per Ben Yahia e Hekiri) che hanno
concluso con richiesta d'accoglimento dei rispettivi ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d'assise d'appello di Milano, il 10.11.2008 ha confermato
- salva una riduzione di pena per Kneni Kamel - la sentenza con
cui, in data 20 dicembre 2007, la Corte d'assise aveva condannato
tutti gli imputati in epigrafe indicati per i reati loro contestati.
2. Arman Ahmed e Maaoui Lofti Ben Sadok sono stati condannati per
il reato di cui all'art. 416 c.p. (capo 1 dell'imputazione), con
l'aggravante della finalità di terrorismo di cui alla L. n. 15 del
1980, art. 1, fatto commesso dal 1997 fino al giugno 2001, per
essersi associati tra loro e con altre persone, separatamente
giudicate, allo scopo di commettere, per finalità di terrorismo più
delitti d'immigrazione clandestina, ricettazione, contraffazione di
documenti d'identità, violenza personale, acquisto e spendita di
banconote false, promuovendo, costituendo, organizzando e
partecipando, il primo come promotore e organizzatore, il secondo
come partecipe, un'associazione criminosa costituente articolazione
nazionale anche del Gruppo Salafita per la Predicazione e il
Combattimento (GSPC) e operante in collegamento con una rete di
gruppi affini attivi in altri paesi Europei (Spagna, Francia,
Belgio, Germania e Inghilterra) ed extraEuropei (Algeria, Tunisia,
Afghanistan e Pakistan).
3. Ben Yahia, Hekiri, Kneni e Sahraoui sono stati dichiarati
colpevoli del reato di cui all'art. 270-bis c.p. (capo 11) e d'altri
delitti, commessi dall'inizio del 1999 (ricettazione, agevolazione
d'ingresso illegale nel territorio dello Stato, traffico di
stupefacenti, acquisto e spendita di banconote false), in seguito
meglio specificati, per essersi associati tra loro e con altri
(separatamente giudicati) allo scopo di compiere atti di violenza con
finalità di terrorismo internazionale, in Italia e all'estero,
nell'ambito di un'organizzazione internazionale, localmente
denominata con varie sigle, operante sulla base di un complessivo
programma criminoso, condiviso con organizzazioni similari attive in
Europa, Nord Africa, Asia e Medio Oriente, finalizzato alla
preparazione ed esecuzione d'azioni terroristiche, nel quadro di una
progetto di "Jihad" come strategia violenta per l'affermazione della
loro religione d'appartenenza.
4. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso per cassazione tutti
gli imputati sopra indicati.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5. Arman Ahmed El Hissini Helmy è stato condannato alla pena di 3
anni e 8 mesi per il reato di cui al capo 1 dell'imputazione (art.
416 c.p., con l'aggravante del fine di terrorismo, di cui alla L. n.
15 del 1980, art. 1) sopra sintetizzato, sulla base delle
dichiarazioni accusatorie rese da Jelassi Rhiadh, Tlili Lazar e
Zouaoii Chokri, riscontrate anche da sentenze irrevocabili,
acquisite ex art. 238-bis c.p.p..
5.1. Il ricorrente, sotto la sintetica rubrica di "violazione
dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) e violazione dell'art.
521 c.p.p.", affastella una serie di doglianze e censure, per la
massima parte ripetitive dell'atto di gravame, motivatamente
rigettate dalla Corte d'assise di secondo grado, le quali devono
considerarsi generiche, per contrasto con le esigenze di specificità
di cui all'art. 581 c.p.p., comma 1 e art. 191 c.p.p, comma 1, lett.
c), le quali implicano che i motivi d'impugnazione siano ricollegati
specificamente al contenuto dell'atto impugnato e non si esauriscano
nella riproduzione di censure già analizzate e valutate dal giudice
d'appello, soprattutto quando, come nel caso in esame, dette censure
ineriscono a valutazioni di fatto, estranee alla competenza della
corte di legittimità, se non negli stretti limiti della verifica di
completezza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà di
cui all'art. 601 c.p.p., comma 1, lett. e).
5.2. In particolare, sono inammissibili le censure relative alla
valutazione probatoria fatta dai giudici di merito, con motivazione
indenne da vizi logici, sui rapporti, ritenuti di valenza centrale
tra gli elementi probatori posto a carico, intrattenuti dall'imputato
Arman Ahmed con Es Sayed Abdelaker, dal primo ospitato a Milano
in un appartamento a lui riconducibile, risultando irrilevante che
l'appartamento fosse personale o in uso all'associazione criminosa
per le proprie attività illecite. Parimenti inammissibile, perché
attinente a valutazione di merito, analiticamente e adeguatamente
motivata, è la censura su quanto argomentato dai giudici sull'uso
del computer dell'imputato da parte del predetto Es Sayed per
comunicare riservatamente con un interlocutore di un'utenza siriana.
5.3. Analogamente inammissibili risultano le censure rivolte alla
valutazione delle dichiarazioni accusatorie rese, a carico
dell'imputato ricorrente, da parte collaboratori sopra indicati, con
riferimento alle denunciate loro contraddizioni ed alle regole
prescritte dall'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, di cui hanno fatto
corretto uso sia i giudici di primo sia quelli di secondo grado, che
hanno già analizzato le doglianze dell'appellante. Nè in ricorso si
prospettano nuovi profili di censura, se non per rilievi marginali e
inconferenti circa la minore o maggiore prossimità dal Lago Patria
di Mondragone, riferito da Jelassi come luogo osservato ai fini di
un possibile attentato.
5.4. È invece ammissibile, ma infondato, il motivo con cui si deduce
violazione dell'art. 521 c.p.p. per avere la Corte d'appello "finito
per attribuire al ricorrente un fatto, un ruolo ed una condotta
diversa rispetto a quella originariamente contestati". Si riferisce
il ricorrente al passo della sentenza che sottolinea come l'iman
della Moschea "non svolgesse direttamente un ruolo organizzativo
all'interno (...) di alcuna delle sub-cellule, pur facenti
riferimento alla Moschea di viale Jenner, ma svolgesse un ben più
importante ruolo di promozione di tali gruppi minori e di raccordo
degli stessi con l'associazione costituente articolazione nazionale
del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento".
Correttamente la Corte d'appello ha ritenuto che già tale
qualificazione del ruolo dell'Arman Amed emergeva chiaramente dal
capo d'imputazione a lui originariamente contestato, ruolo che si
esplicò nell'opera di propaganda, tra i frequentatori della Moschea
più recettivi, del progetto di Jihad in modo da indurli a
frequentare i campi d'addestramento all'estero, nella raccolta di
fondi mirata al finanziamento del progetto, nel collegamento con
importanti personaggi che, in Italia e all'estero, dedicavano la
propria vita alla realizzazione del progetto.
5.5. Infondato è, infine, l'ultimo motivo con cui si deduce
l'inosservanza di legge per mancata esclusione della circostanza
aggravante di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1. Rileva il
ricorrente che "il concetto di terrorismo non era applicabile agli
atti violenti, con finalità d'eversione, se indirizzati verso uno
Stato straniero non costituendo tali atti una lesione
dell'ordinamento costituzionale italiano".
In effetti, l'aggravante è stata ritenuta con riferimento agli
attentati da compiersi in Italia, analizzati nella sentenza di primo
e di secondo grado.
6. Maaoui Lofti Ben Sadok è stato condannato alla pena di due anni
di reclusione per partecipazione all'associazione criminosa di cui al
capo 1 dell'imputazione (art. 416 c.p., con l'aggravante del fine di
terrorismo, di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1).
6.1. Con motivo unico, il ricorrente deduce vizio di motivazione
della sentenza con riferimento all'elemento oggettivo e soggettivo
del reato e censura la mancata distinzione tra l'animus del partecipe
dell'associazione criminosa e quella del simpatizzante.
6.2. Il motivo è del tutto generico, giacché non si confronta con
la puntuale motivazione della sentenza d'appello che ha preso in
analitica considerazione le censure dell'appellante, rigettandole
motivatamente con riferimento, alle dichiarazioni accusatorie di
Jelassi Riadh, riscontrate da Tlili Lazhar, sul periodo di tempo
trascorso dall'imputato nell'orbita dell'associazione gravitante
attorno all'imam della moschea di viale Jenner di Milano, con
successiva partecipazione dell'imputato, con il nome di "Abu
Hodeifa" ai campi d'addestramento in Afghanistan, nonché ai
colloqui avuti con il Jelassi in cui l'imputato esprimeva la
necessità di portare la guerra fino in Italia.
Nell'ambito della doglianza mossa dal ricorrente, una sola censura
appare specifica e sottrae il ricorso alla declaratoria
d'inammissibilità richiesta dal Procuratore generale: quella che
deduce il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui
afferma "che il viaggio in Afghanistan fosse pratica riservata agli
associati che avessero dato prova della fedeltà al gruppo e della
condivisione dei fini".
Trattasi, però, di censura senza fondamento. Emerge da tutta la
ricostruzione dei giudici di merito, operata sulla base del materiale
probatorio acquisito, che il "viaggio in Afghanistan" non aveva ne'
carattere premiale ne' natura turistica, ma era finalizzato alla
partecipazione a rischiosi campi d'addestramento militare (da cui il
Maaoui Lofti uscì ferito alla mano), come segmento esperenziale
all'interno del percorso di militanza, in cui, per elementari
esigenze di sicurezza e d'autotutela, non poteva essere ammesso chi
non avesse dato piena prova d'affidabilità con l'adesione ad uno dei
gruppi che, dopo avere operato la necessaria selezione, rendevano
possibile - anche da un punto di vista organizzativo - tale
frequentazione, volta a rafforzare la preparazione teorico-pratica
necessaria per la diffusione della guerra in Europa e in Italia.
7. Ben Yahia Mouldi Ben Rachid è stato condannato alla pena di 10
anni di reclusione per reati di cui ai capi 11 (art. 570-bis c.p.),
12 (artt. 648, 477 e 482 c.p. per avere ricevuto ed occultato
documenti d'identità e moduli in bianco di provenienza delittuosa,
al fine di consentire ad altre persone di raggiungere campi
d'addestramento), 13 (artt. 110 e 81 c.p., D.Lgs. n. 286 del 1998,
art. 12, commi 1 e 3, per avere compiuto atti diretti a procurare
l'ingresso illegale di persone nel territorio dello Stato), 22 (art.
110 c.p., art. 453 c.p., comma 1, nn. 3 e 4, L. n. 15 del 1980, art.
1, per avere ricevuto e usato banconote false in tre occasioni per L.
100.000.000), 23 (art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
per avere, in concorso con Zouaoui, acquistato quantitativi di
hashish con banconote false).
7.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ex art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. b), inosservanza ed erronea applicazione di legge
penale per violazione del D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater e L. n.
45 del 2001, denunciandosi l'inutilizzabilità delle dichiarazioni
accusatorie rese dai collaboratori di giustizia oltre 180 giorni
dall'inizio della collaborazione.
Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
che il Collegio condivide, la sanzione d'inutilizzabilità prevista
dal D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater, comma 9, conv. con mod. in L.
n. 82 del 1991 (introdotto dalla L. n. 45 del 2001, art. 14) per le
dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di
centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo
dei contenuti della collaborazione, si applica soltanto alle
dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non alle dichiarazioni
rese nel corso del dibattimento (cfr. Cass. 46328/2007, Galletta;
27040/2008, Aparo; 42618/2009, P.G. e Franchina in proc. Ambrogio).
7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 606
c.p.p., lett. e), illogicità della motivazione in relazione
all'attendibilità delle dichiarazioni del collaborante Zouaoui.
La censura è inammissibile, essendo del tutto scollegata dalla
motivazione della sentenza impugnata e basata, invece, su un'asserita
"attività di sottocopertura" dello Zouaoui, utilizzato e
manipolato dagli inquirenti, che, allo stato, si configura come
illazione e supposizione che non possono essere prese in
considerazione in questa sede di legittimità.
7.3. Inammissibile, ex art. 606 c.p.p., comma 3, è la censura
relativa al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, non avendo esse costituito oggetto delle deduzioni
d'appello.
7.4. Del tutto generico, e perciò inammissibile ai sensi dell'art.
581 c.p.p., comma 1, lett. c e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c è
anche l'ultimo motivo, con cui si deduce vizio di motivazione ex art.
606 c.p.p., lett. e), in relazione al principio dell'oltre ogni
ragionevole dubbio, che si risolve in considerazioni di carattere
generale e in citazioni giurisprudenziali, senza alcun collegamento
con la sentenza impugnata.
8. Hekiri Hichem è stato condannato alla pena di cinque anni e sei
mesi di reclusione per il delitto di cui all'art. 270-bis c.p. (capo
11).
8.1. Con il primo motivo, comune al coimputato Ben Yahia, il
ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge
penale per violazione del D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater e L. n.
45 del 2001 e denuncia l'inutilizzabilità delle dichiarazioni
accusatorie rese dai collaboratori di giustizia oltre i 180 giorni
dall'inizio della collaborazione.
La censura è infondata per le ragioni già indicate nell'esame
dell'identico motivo del Ben Yahia.
8.2. Sono invece fondati il secondo, il terzo e il quarto motivo di
ricorso, con cui si deducono violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 3
e relativo vizio di motivazione sulla valutazione delle dichiarazioni
accusatorie e dei relativi riscontri.
Il ricorrente aveva presentato specifici e articolati motivi
d'appello, soprattutto in ordine alle accuse mosse dal collaboratore
Zouaoui ed alla sua ritenuta attendibilità.
La Corte d'assise d'appello, nel rigettare il gravame dell'imputato,
pur modificando alquanto le affermazioni della prima sentenza, ha
respinto le critiche all'inattendibilità del dichiarante. A
proposito di un asserito viaggio effettuato a Parigi, i giudici
d'appello rilevano come Zouaoui "si sia sbagliato allorché ha
identificato nel Rabei Osman El Sayed il consegnatario dei
documenti portati nell'occasione del viaggio a Parigi"; affermano,
confermando i rilievi dell'appellante, che effettivamente nel
controesame cui fu sottoposto il 5.6.07 da parte del difensore di
Hekiri, il collaboratore "operò un netto dietro front rispetto
alla certezza dimostrata nelle precedenti dichiarazioni", aggiungendo
che "non si può escludere (ma neanche affermare con sicurezza) che
ciò sia dovuto alle ricordate inconciliabili dichiarazioni"
dell'ufficiale di polizia giudiziaria Migale, secondo cui in quel
periodo El Sayed era rinchiuso in un centro di permanenza in
Germania.
La conclusione cui perviene la sentenza impugnata è che Zouaoui si
era sbagliato, "ma non per questo (può) essere considerato un
calunniatore ne' comunque si (può) estendere il giudizio
d'inattendibilità alle altre dichiarazioni più propriamente
riguardanti Hekiri".
I giudici hanno evidentemente fatto applicazione del principio di
frazionabilità della dichiarazione, più volte legittimato dalla
giurisprudenza di questa Corte, sempre che non esista un'interferenza
fattuale e logica tra la parte della narrazione, ritenuta falsa
oppure non confermata, e le restanti parti che siano intrinsecamente
attendibili e riscontate e purché la falsità di una parte della
dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto
con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la
complessiva credibilità del dichiarante (cfr. Cass. n. 6221/2006,
Aglieri).
L'accertata falsità su di uno specifico fatto narrato non comporta
automaticamente la perdita di credibilità di tutto il compendio
conoscitivo-narrativo dichiarato dal collaboratore di giustizia.
Com'è stato sottolineato da recente giurisprudenza (Cass. n.
14909/2010, Conti Taguali), è affidata al giudice la verifica e la
ricerca di un punto di "ragionevole equilibrio di coerenza e
qualità" di ciò che viene riferito, nel contesto di tutti gli altri
fatti, evidenziandosi che il necessario riscontro si pone in termini
inversamente proporzionali alla pesata e vagliata attendibilità
soggettiva del chiamante in reità o correità: ad una debole valenza
d'attendibilità soggettiva deve corrispondere un più elevato e
consistente spessore di riscontro, in una sorta di compensazione
valutativa che sia in grado di porre efficace rimedio alla scarsa
rassicurabilità della fonte, attraverso il necessario minuzioso
raffronto di verifiche di credibilità estrinseca.
A tal esigenza di rafforzato riscontro si accompagna, ovviamente, la
necessità di una specifica motivazione, idonea a dar conto della
ragione per cui l'accertata falsità di uno specifico fatto narrato
non comporta la perdita di credibilità del dichiarante o
l'inattendibilità della dichiarazione.
A fronte della versione dell'appellante, che negò in radice
l'esistenza di tale viaggio e affermò la falsità delle
dichiarazioni di Zouaoui, l'affermazione della Corte d'assise
d'appello è puramente asseverativa (il collaboratore "si era
sbagliato") e non fornisce alcuna plausibile spiegazione dell'errore
del collaboratore, che aveva con sicurezza garantito l'identità di
Rabei Osman El Sayed come consegnatario dei documenti portati
nell'occasione del viaggio a Parigi, sottolineando che "aveva
passato due giorni di seguito con lui".
Nè è stata evidenziata dai giudici d'appello l'esistenza di sicuri
e rafforzati riscontri. Questi, secondo la sentenza in esame, sono
costituiti (non dalle dichiarazioni di Jelassi, contrariamente a
ciò che aveva ritenuto la Corte di primo grado), ma da contatti
telefonici dell'appellante con Ben Yahia e Saadi Nassim, ricavati
da "tabulati pregressi" e dalla carica di sindaco ricoperta
dall'imputato nella General Service di Scheik Ahmed.
I tabulati pregressi, per come genericamente indicati, alla pari
della frequentazione e conoscenza di persone del medesimo ambiente
sociale e religioso, non appaiono idonei a costituire riscontro,
giacché i semplici contatti telefonici (nell'ignoranza del loro
oggetto) possono provare la conoscenza tra i diversi soggetti, ma non
hanno alcuna valenza dimostrativa di riscontro sullo specifico fatto
addebitato all'imputato. Nè tanto meno può servire l'indicata
carica di sindaco della cooperativa, ciò che costituirebbe, sia pure
sotto il profilo di riscontro confermativo, una sorta d'inammissibile
"responsabilità da posizione", peraltro rivestita per un ben
limitato periodo.
In conclusione, sembra dalla motivazione della sentenza che la Corte
d'assise d'appello abbia riconosciuto come fondate le censure
dell'appellante Hekiri, senza tuttavia trarne le conseguenze logico-
giuridiche in ordine all'attendibilità del collaborante e alla
mancanza di riscontri esterni alla chiamata in correità o, per lo
meno, senza idonea motivazione sul punto.
Assorbite le censure sul trattamento sanzionatorio, la sentenza
impugnata va, pertanto, annullata con rinvio al giudice di merito per
nuovo esame.
9. Kneni Kamel è stato condannato dalla Corte d'assise d'appello
alla pena di 5 anni di reclusione (così ridotta rispetto a
quell'inflitta in primo grado) per il reato di cui all'art. 270-bis
c.p..
9.1. Il ricorrente denuncia, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed
e), inosservanza della legge penale e vizio di motivazione in ordine
all'attendibilità dei chiamanti e alla ritenuta esistenza di
riscontri individualizzanti, indicato in elementi d'ordine puramente
logici e ipotetici, che assumono la valenza di supposizioni o
congetture.
Deduce, inoltre, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed
e), la mancata assunzione di prova decisiva e relativo vizio di
motivazione, in ordine alla documentazione relativa allo stato di
famiglia dell'imputato e al verbale illustrativo della collaborazione
del dichiarante Zoauoui Chokri.
A questo proposito censura la sentenza per inosservanza e violazione
di legge e vizio di motivazione anche con riferimento al rigetto
della doglianza difensiva relativa alle dichiarazioni dello
Zoauoui, rese dopo 180 giorni dall'inizio della collaborazione e
deduce, deducendo, in mancanza del verbale illustrativo della
collaborazione, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni
dibattimentali degli ufficiali di polizia giudiziaria in merito alle
notizie e alle informazioni contenute nel predetto verbale.
Si duole infine dell'inosservanza di norma processuali stabilite a
pena d'inutilizzabilità a proposito delle intercettazioni
telefoniche, acquisite in violazione degli artt. 270 e 168 c.p.p..
9.2. Nessuna delle doglianze, ad eccezione della prima, merita
accoglimento.
Cominciando l'esame dalla dedotta inutilizzabilità delle
intercettazioni telefoniche trascritte nelle sentenze acquisite ex
art. 238-bis c.p.p. e, perciò, realizzate in altri procedimenti, va
innanzitutto rilevata le genericità del rilievo, in mancanza
dell'indicazione specifica delle intercettazioni asseritamene
utilizzate e della decisività di tale utilizzazione ai fini della
formazione del convincimento dei giudici. In secondo luogo, nella
parte in cui la censura evoca la mancata possibilità di controllo
sulla legittimità delle intercettazioni telefoniche disposte in
altro procedimento, è stato più volte affermato da questa Corte che
la parte che propone tali questioni ha l'onere (non adempiuto dal
Kneni) di produrre sia il decreto d'autorizzazione sia il documento
al quale esso rinvia, richiedendone copia a norma dell'art. 116
c.p.p., in modo da porre il giudice del procedimento ad quem in grado
di verificare l'effettiva inesistenza, nel procedimento a quo, del
controllo giurisdizionale prescritto dall'art. 15 Cost. (Cass. Sez.
U., n. 45189/2004, P.M. in proc. Esposito). Infine, non è
prospettabile alcuna elusione dell'art. 270 c.p.p., comma 1, essendo
stato contestato all'imputato il reato di cui all'art. 270-bis c.p.,
rientrante tra i delitti per i quali è consentita l'utilizzazione
delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali
sono state disposte.
Tutte le censure che hanno ad oggetto il tempo e il verbale
dell'inizio della collaborazione di Zouaoui Chokri, le
dichiarazioni da lui rese oltre i 180 giorni, le dichiarazioni degli
ufficiali di polizia giudiziarie con relazione all'inizio della
collaborazione del predetto Zouaoui sono destituite di fondamento
per le ragioni già indicate con riferimento al ricorso di Ben Yahia
Mouldi Ben Rachid.
Inconferenti si rivelano le censure relative alla mancata
acquisizione in appello dello stato di famiglia dell'imputato, al
fine di provare l'inesistenza del fratello Mourad e così smentire
le contrarie affermazioni dei giudici di primo grado, avendo la Corte
d'appello chiaramente affermato l'irrilevanza di tale questione ai
fini dell'affermazione di colpevolezza dell'imputato, come meglio si
chiarirà nella prosecuzione dell'esame.
9.4. Passando all'analisi del primo motivo, infondatamente il
ricorrente, con riferimento all'attendibilità del collaboratore
Zouaoui Chokri, rileva che la Corte d'appello "si è limitata a far
proprie le motivazioni contenute nelle sentenze definitive acquisite
nel presente procedimento, senza effettuare, quindi, la necessaria ed
autonoma valutazione in merito". Rileva, invece, il Collegio che
dall'esame della sentenza impugnata, che va esaminata anche in
relazione ai rinvii operati alla decisione di primo grado, risulta
che la valutazione delle sentenze irrevocabili acquisite è stata
operata a norma dell'art. 187 e art. 192, comma 3, in piena
osservanza di quanto prescrive l'art. 238-bis c.p.p..
Merita, invece, accoglimento la doglianza del Kneni concernente
l'inosservanza dell'art. 192 c.p., comma 3 e la relativa motivazione
con riferimento ai necessari riscontri individualizzanti.
L'affermazione di colpevolezza era stata fondata dalla Corte di primo
grado sulle dichiarazioni accusatorie di Zouaoui Chokri,
riscontrate in parte dall'altro collaboratore Jelassi, ma
soprattutto, dall'esistenza di una pratica (sequestrata preso
l'agenzia Adineh Travel) per il visto per l'Iran (che si riteneva
finalizzata ad andare a combattere in Afghanistan, dove già suo
fratello Mourad era morto da mujhaiddin).
L'appellante aveva mosso specifici rilievi critici in ordine ai tre
ritenuti riscontri (dichiarazioni di Jelassi, pratica per ottenere
un visto per l'Iran, esistenza di un fratello Mourad, morto
"martire" in Afghanistan), denunciandone anche l'inconsistenza del
necessario carattere individualizzante.
La Corte d'appello, ribadita l'attendibilità di Zouaoui, ha
sottolineato che il primo giudice "non ha in realtà, assunto
l'esistenza di un fratello di nome Mourad, morto come martire,
quale riscontro individualizzante della dichiarazioni accusatorie, ma
ha semplicemente riportato, quanto riferito al riguardo sia da
Zouaoui sia da Jelassi, osservando soltanto che il dato in
questione non può ritenersi smentito dalla documentazione
acquisita". Hanno poi precisato i giudici d'appello che "le
dichiarazioni di Jelassi non costituiscono certo riscontro
individualizzante delle dichiarazioni accusatorie dello Zouaoui, ma
solo conferma che affettivamente, negli ambienti della Moschea,
girasse tale voce".
Orbene, esclusa la valenza di riscontro sia alle dichiarazioni di
Jelassi sia alla supposta uccisione in combattimento dell'eventuale
fratello Mourad (la cui esistenza e la cui morte, peraltro, è
onere dell'accusa dimostrare), residua unicamente la richiesta del
visto per accedere in Iran, del quale la Corte territoriale ha
"confermato il valore di riscontro".
La Corte, tuttavia, per attribuire tale valore avrebbe dovuto fornire
una convincente spiegazione del motivo per cui - avendo il sodalizio
criminoso attrezzature e mezzi per procurarsi e realizzare
documentazione falsificata e così occultare i movimenti dei suoi
adepti - il Kneni avrebbe scelto la via legale di una richiesta
ufficiale di visto per l'ingresso in Iran, tramite un'agenzia di
viaggi. Tale spiegazione manca nella sentenza impugnata, che omette
anche di replicare al rilievo dell'appellante, secondo cui affinché
la pratica relativi al visto per l'Iran potesse costituire
riscontro individualizzante, occorreva dimostrare e provare che il
visto era stato richiesto per poi andare a combattere in
Afghanistan o comunque in quelle zone del medio-oriente dove vi
sono atti di guerra, ovvero per andare in luoghi ove l'associazione
criminosa intendeva svolgere atti di terrorismo o atti prodromici
all'attività ed al fine dell'associazione medesima.
Assorbite le censure sul trattamento sanzionatorio, la sentenza
impugnata va, pertanto annullata nei confronti di Kneni Kamel, con
rinvio al giudice del merito per nuovo giudizio.
10. Sahraoui Nessun Ben Romdhane, condannato alla pena di 6 anni di
reclusione per i reati di cui ai capi 11 (art. 270-bis c.p.) e 27
(artt. 110, 648, 477 e 492 c.p. per avere ricevuto ed occultato
documenti d'identità e moduli in bianco di provenienza delittuosa,
al fine di consentire gli spostamenti dei militanti
dell'associazione.
10.1. È preliminare l'esame dei motivi con cui il ricorrente deduce
violazione di legge processuale che incidono sulla regolare
costituzione del rapporto processuale.
10.2. È fondato il motivo con cui, ex art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. c), viene denunciata la violazione, degli artt. 420-bis, 420-
ter, 420-quater e 603 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) per
inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità,
con riferimento all'ordinanza di contumacia dell'imputato.
Dalla sentenza emerge che - dopo avere dichiarato la contumacia di
Sahraoui con una prima ordinanza del 22.5.2008, per essere la
documentazione fornita dalla difesa in lingua araba e di provenienza
non ufficiale - successivamente, all'esito della produzione da parte
della difesa Sahraoui di ulteriore documentazione in lingua araba e
relativa traduzione, la Corte d'assise d'appello, con una seconda
ordinanza emessa all'udienza del 5.11.2008, respinse "la richiesta di
dichiarare il legittimo impedimento dell'appellante a comparire e, in
subordine, di disporre i dovuti accertamenti circa l'attuale
detenzione in Tunisia".
A giustificazione di tale decisione, la Corte territoriale ha
rilevato, per un verso, che il predetto documento in lingua araba
"attesterebbe - al più - lo stato di detenzione alla data del
8.5.2007" e, per altro verso, che la detenzione all'estero per altra
causa non risultava dagli atti, così come richiesto dal testo
dell'art. 420-ter c.p.p., comma 2.
In tema d'impedimento dell'imputato, giova rammentare che la
detenzione dell'imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del
processo e comunicata solo in udienza, integra un'ipotesi di
legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del
giudizio in contumacia, anche quando risulti che l'imputato medesimo
avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di
detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è
configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il
difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento.
(Cass. Sez. U, n. 374836, Arena).
La Corte territoriale non ha posto in discussione tale principio,
ovviamente valido anche per lo stato di detenzione all'estero, ma ha
ritenuto che tale stato non "risultava dagli atti".
La Corte ha evidentemente inteso il testo dell'art. 420-ter c.p.p.,
comma 1 ("quando... risulti che l'assenza è dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per... altro legittimo impedimento") nel
senso che l'impedimento deve risultare dagli atti già formati del
fascicolo processuale, non considerando che i documenti prodotti
dalla difesa, una volta acquisiti dal giudice, entrano a far parte
degli atti del fascicolo e, se documentano il legittimo impedimento,
sono idonei a determinare le prescritte conseguenze.
La documentazione prodotta dalla difesa, secondo la sentenza,
"attesterebbe - al più - lo stato di detenzione del Sarhaoui alla
data dell'8.5.2007". Con tale annotazione la Corte territoriale vuole
implicitamente, ma chiaramente, significare che non era attestato lo
stato di detenzione in data prossima al 5 novembre 2008 (data del
giorno dell'udienza e dell'ordinanza), ma non ha considerato che la
difesa in tale udienza aveva depositato la traduzione in italiano di
documentazione sostanzialmente analoga a quella prodotta in lingua
araba il 22 maggio 2008. Quand'anche si volesse ritenere formalmente
legittimo il mancato collegamento tra la documentazione presentata il
22 maggio (in lingua araba) e quelle prodotta il 5 novembre (in
lingua italiana), non poteva la Corte omettere di considerare, da un
lato, che il difensore aveva, con riferimento alla prima udienza,
indicato specificamente lo stato di detenzione dell'imputato in un
determinato carcere della Tunisia e, dall'altro, che lo svolgimento
di tutta la vicenda rendeva palese che la difesa non stava
realizzando tentativi dilatori, ma era visibilmente impegnata a
provare la sussistenza del legittimo impedimento per detenzione in un
paese che la stessa Corte territoriale ha stigmatizzato come
scarsamente collaborativi. In tale situazione era doveroso, in
accoglimento della richiesta subordinata, disporre i necessari
accertamenti d'ufficio per la verifica dello stato di detenzione, non
potendosi far ricadere sull'imputato le difficoltà di collaborazione
tra autorità giudiziaria italiana e autorità tunisine. L'omissione
d'accertamento ha determinato una violazione dei diritti
dell'imputato, sanzionata a norma dell'art. 178 c.p.p., comma 1,
lett. c) e art. 180 c.p.p..
La sentenza impugnata va, perciò, annullata nei confronti del
Sarhaoui con rinvio al giudice di merito.
10.3. Il Collegio rileva la fondatezza anche dell'altro motivo con
cui il ricorrente deduce violazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. c), degli artt. 169, 295 e 296 c.p.p., art. 178 c.p.p., lett.
c) per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di
nullità, con riferimento al decreto di latitanza emesso in data
22.9.2005.
Il difensore dell'appellante aveva presentato specifico motivo di
gravame in ordine alla dichiarazione di latitanza, censurandone
l'illegittimità formale (per mancanza d'indicazione delle specifiche
ricerche svolte, secondo quanto è richiesto dall'art. 295 c.p.p.,
comma 1) e sostanziale (per mancata considerazione di una precedente
nota dei ROS, datata 22.4.2005, che attestava l'avvenuta espulsione
dell'imputato per la Tunisia in data 5.12.2002).
Era stata appellata anche la successiva dichiarazione di contumacia,
conseguenza dello stato di latitanza erroneamente riconosciuto al
Sarhaoui, non potendosi ne' la latitanza ne' la contumacia
ricondurre in alcun modo ad un atto volontario dell'imputato.
La Corte d'appello ha, per un verso, ritenuto che il decreto di
latitanza, emesso il 2.9.2005 fosse stato ritualmente adottato con
riferimento alla concreta situazione accertata in quel momento,
costituendo l'avvenuta espulsione un dato "neutro, e, pertanto,
giustamente ignorato nel decreto di latitanza" e, per altro verso, ha
valutato che "l'espulsione, di per sè, non costituisce legittimo
impedimento... potendo chiedere l'interessato l'autorizzazione a
rientrare per presenziare".
Orbene, a prescindere dalle notorie e non agevoli difficoltà per
ottenere l'autorizzazione a rientrare in Italia a seguito di un
decreto d'espulsione, rileva il Collegio che la difesa aveva
denunciato la nullità della vocatio in iudicium derivante
dall'irrituale declaratoria della latitanza.
Poiché gli effetti della dichiarazione dello stato di latitanza si
estendono per tutto il procedimento sino alla cessazione del predetto
stato, la verifica della ritualità della sua adozione condiziona
quella della ritualità della notificazione della citazione in
giudizio, per cui l'invalida dichiarazione di latitanza comporta
l'irregolarità della notifica della citazione giudizio e della
successiva dichiarazione di contumacia.
L'assunto da cui muovono i giudici d'appello circa la ritualità
della declaratoria di latitanza non è condivisibile, risultando
dalla stessa sentenza impugnata che il ROS di Milano, con nota del
2.4.2005, aveva segnalato che il Sarhaoui, compiutamente
generalizzato, era stato già espulso verso la Tunisia, cosicché
non poteva in alcun caso inferirsi che l'imputato si fosse
"volontariamente" sottratto alla custodia cautelare (art. 296 c.p.p.,
comma 1) o, quanto meno, che si fosse allontanato dal territorio
nazionale nella consapevole previsione dell'emissione di un
provvedimento coercitivo a suo carico e della volontà dello stesso
di sottrarsi alla sua esecuzione.
In siffatta situazione, per essere ritenute "esaurienti", secondo il
disposto dell'art. 295 c.p.p., comma 2, le ricerche avrebbero dovuto
essere estese alla Tunisia, ex art. 169 c.p.p., comma 4, la cui
previsione, dettata per l'emissione del decreto d'irreperibilità,
deve ritenersi applicabile analogicamente anche ai fini della
legittimità dell'emissione del decreto di latitanza, che è una
forma d'irreperibilità, qualificata dalla volontaria sottrazione del
soggetto ad un provvedimento coercitivo, essendo tale procedura
elemento per valutare il grado di completezza delle ricerche. (Cass.
n. 17592/2007, Dalipi; n. 5929/2009, Bambach; n. 47229/2009, Neziri).
Ne consegue anche la nullità del giudizio di primo grado, con
conseguente necessità d'annullamento, nei confronti di Sahraoui
Nessim Ben Romdhane, sia della sentenza impugnata sia di quella
della Corte d'assise di Milano pronunciata in data in data 20
dicembre 2007, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della
Corte d'assise di Milano.
11. Sul provvedimento d'espulsione.
La Corte d'assise, con conferma da parte della Corte d'assise
d'appello, aveva disposto il provvedimento d'espulsione dal
territorio dello Stato, a pena espiata, di vari imputati, tra cui
Kneni, Hekiri, Sahraoui e Ben Yahia, taluni dei quali avevano
formulato motivi d'impugnazione sul punto.
In proposito, a seguito di ricorso proposto in data 13.4.2010 dal
ricorrente Kneni Kamel alla Corte Europea dei diritti dell'uomo ex
art. 34 Cedu, il Greffier della 2^ sezione della predetta Corte ha
comunicato alla Rappresentanza permanente d'Italia presso il
Consiglio d'Europa, con nota 15.4.2010 trasmessa a questa Corte dal
Ministero della giustizia, il contenuto di una misura cautelare
sospensiva emessa in data 14 aprile. Con tale provvedimento, il
Presidente della 2^ sezione della Corte di Strasburgo indica al
Governo italiano la necessità di "non procedere all'espulsione del
ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine, al fine di non
pregiudicare l'esito del procedimento", ai sensi dell'art. 39 del
Regolamento della Corte, con avvertenza che la mancata
collaborazione, ovvero il mancato rispetto dell'indicazione della
Corte di non procedere alla materiale espulsione dello straniero sino
a nuovo ordine, costituirebbe autonoma violazione della Convenzione,
distinta e indipendente da quelle denunciate dalla parte ricorrente,
per le quali l'Italia potrebbe, in ipotesi, incorrere in una condanna
ulteriore.
Sebbene la nota del presidente della 2^ sezione della Corte Europea
abbia la forma dell'auspicio e dell'invito a soprassedere, fino a
nuovo ordine, all'esecuzione del provvedimento d'espulsione nei
confronti di Kneni e sia diretta al Governo italiano, che ha il
compito di dare materiale e concreta esecuzione all'ordine
d'espulsione del condannato dal territorio dello Stato, non v'è
alcun dubbio che quell'invito costituisca un'inibizione obbligatoria,
la cui mancata osservanza - per la giurisprudenza della Corte a
partire dalla decisione della Grande Camera del 2005 - "va
considerata come ostruzione alla disamina efficace da parte della
Corte della rimostranza fatta dal richiedente e come ostruzione
dell'esercizio efficace del suo diritto e, pertanto, come una
violazione dell'articolo 34 della Convezione" (decisione sul caso
Mamutkulov e Askarov a Turchia - ricorsi nn. 46827/99 e 46951/99).
Alla doverosa osservanza degli obblighi che scaturiscono dai
provvedimenti anche provvisori della Corte di Strasburgo, oltre al
Governo, sono tenute tutte le istituzioni della Repubblica, compresi
gli organi giurisdizionali nell'ambito delle rispettive competenze, e
specificamente, in materia di misure di sicurezza, il magistrato di
sorveglianza.
Nè la questione può ritenersi limitata al ricorrente Kneni,
oggetto della specifica misura provvisoria sopra indicata della Corte
Europea, giacché la stessa misura di sicurezza dell'espulsione, a
pena espiata, è stata disposta anche nei confronti i ricorrenti
Hekiri, Sahraoui e Ben Yahia, tutti cittadini tunisini e,
perciò, destinati all'espulsione verso la Tunisia, paese che,
secondo quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, non offre garanzia
di rispetto dei diritti umani fondamentali.
La Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, (resa esecutiva con L.
n. 848/1955), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura
(resa esecutiva con L. n. 489 del 1988) e il Patto Internazionale sui
diritti civili e politici (reso esecutivo con L. n. 881 del 1977)
proibiscono la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e
prescrivono il divieto di refoulement, ovvero di rimpatrio a rischio
di persecuzione. Il divieto di refoulement è assoluto e si applica
ad ogni persona, senza considerazione ne' del suo status ne' del tipo
d'imputazione o di condanna, ed indipendentemente dalla natura del
trasferimento, comprese l'estradizione o l'espulsione.
Proprio con riferimento alla Tunisia, il 28 febbraio 2008, la Grande
Camera della Corte Europea, nel caso Saadi c. Italia, ha statuito che
la messa in esecuzione della decisione di espellere il ricorrente
verso quel paese integrerebbe una violazione dell'art. 3 della
Convenzione, che vieta la sottoposizione a tortura, a pena o
trattamento inumani o degradanti.
Tale decisione è stata fondata sulla considerazione di diritto,
secondo cui l'art. 3 stabilisce una protezione assoluta della persona
e impone di non estradarla o espellerla quando essa corre, nel Paese
di destinazione, un rischio reale di essere sottoposta ai trattamenti
inumani o degradanti, e sulla constatazione di fatto emergente dai
rapporti sulla Tunisia d'affidabili organizzazioni internazionali
(Amnesty International e Human Rights Watch, corroborati da relazioni
del Dipartimento di Stato americano), che segnalano numerosi e
regolari casi di tortura e di maltrattamenti in quel Paese
relativamente a persone accusate ai sensi della legge antiterrorismo
del 2003. "Le pratiche denunciate - che si verificherebbero spesso
durante il fermo e allo scopo di estorcere delle confessioni - vanno
dalla sospensione al soffitto alle minacce di violenza sessuale,
passando per le scariche elettriche, l'immersione della testa in
acqua, le percosse e le bruciature di sigarette, ossia pratiche che
senza alcun dubbio raggiungono la soglia di gravità richiesta
dall'art. 3 della Convenzione. Le accuse di torture e di
maltrattamenti non sarebbero esaminate dalle autorità tunisine
competenti, che si rifiuterebbero di dar seguito alle denunce e
utilizzerebbero regolarmente le confessioni ottenute sotto
costrizione per giungere a condanne".
In tali condizioni, la Corte Europea ha ritenuto che, nella
fattispecie, sussiste un rischio reale che la persona sottoposta ad
espulsione verso la Tunisia potrebbe subire dei trattamenti
contrari all'art. 3 della Convenzione.
Da tale pronuncia deriva per ogni articolazione istituzionale della
Repubblica la necessità di verificare il rigoroso rispetto dell'art.
3 della Convenzione e, specificamente, per ogni organo
giurisdizionale competente a deliberare decisioni che comportano
trasferimenti di persone verso la Tunisi, il dovere di individuare e
adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona,
un'appropriata misura di sicurezza, diversa dall'espulsione, alla
luce dei principi vigenti in materia e in considerazione della
particolare situazione dei prevenuti. E ciò fino a quando non
sopravvengano in Tunisia fatti innovativi idonei a mutare la
situazione d'allarme descritta nell'indicata decisione della Corte
Europea dei diritti dell'uomo, sì da offrire affidabile e concreta
dimostrazione di garanzia di pieno rispetto dell'art. 3 della
Convenzione.
Trattandosi vicende suscettibili di evoluzione e di sviluppo, tale
verifica va fatta nel momento in cui deve eseguirsi l'espulsione, con
eventuale sostituzione di essa con altra misura di sicurezza.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di Hechiri
Hichem Ben Mohamed e di Kneni Kamel, e rinvia per nuovo giudizio
ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Milano;
annulla la sentenza impugnata e la sentenza della Corte d'assise di
Milano del 20 dicembre 2007 nei confronti di Sahraoui Nessim Ben
Romdhane e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte
d'assise di Milano.
Rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2010