SENTENZA n.
0265
del
2010 (G.U. 030 del 28/07/2010)
[massime]
[rimessione]
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente Francesco AMIRANTE
Giudice
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Ugo DE SIERVO
Paolo MADDALENA
Alfio FINOCCHIARO
Alfonso QUARANTA
Franco GALLO
Luigi MAZZELLA
Gaetano SILVESTRI
Sabino CASSESE
Maria Rita SAULLE
Giuseppe TESAURO
Paolo Maria NAPOLITANO
Giuseppe FRIGO
Alessandro CRISCUOLO
Paolo GROSSI
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ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dellart. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dallart.
2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi
dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno con ordinanze del 28 e 30 settembre 2009, dal Tribunale di
Torino, sezione per il riesame, con ordinanza del 28 maggio 2009 e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Venezia con ordinanza del 4 novembre 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 310 e 311 del registro ordinanze 2009 e ai nn.
14 e 66 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 1, 6 e 11, prima serie speciale,
dellanno 2010.
Visti latto di costituzione di C. A. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nelludienza pubblica del 25 maggio 2010 e nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe
Frigo;
uditi lavvocato Sandro De Vecchi per C. A. e lavvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1. Con due ordinanze di contenuto analogo, depositate il 28 e il 30 settembre 2009 (r.o. n. 310 e n. 311 del 2009), il Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo
comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dellart. 275, comma 3, del codice di procedura penale,
come modificato dallart. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile
2009, n. 38, nella parte in cui, in presenza di esigenze cautelari, impone di applicare la misura della custodia in carcere
alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 609-quater (ordinanza n. 310
del 2009) e 609-bis del codice penale (ordinanza n. 311 del 2009).
Nei procedimenti principali, il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sulle istanze formulate dai difensori di persone indagate,
rispettivamente, per il delitto di atti sessuali con minorenne aggravati continuati (artt. 81, 609-ter e 609-quater cod. pen.)
e per il delitto di violenza sessuale aggravata continuata (artt. 81, 61, numeri 1, 5, e 11, e 609-bis cod. pen.): istanze
volte ad ottenere la revoca o la sostituzione con altra di minore gravità (la sola sostituzione, nel caso dellordinanza r.o.
n. 311 del 2009) della misura della custodia cautelare in carcere, cui lindagato si trova sottoposto. Ad avviso del rimettente,
mentre listanza di revoca non sarebbe accoglibile, stante la persistenza delle esigenze cautelari, queste ultime potrebbero
essere fronteggiate con una misura meno gravosa di quella in atto e, in particolare nel caso dellordinanza r.o. n. 311
del 2009 con la misura degli arresti domiciliari.
Allaccoglimento delle istanze di sostituzione osterebbe, nondimeno, il vigente testo dellart. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
che, a seguito della modifica operata dallart. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 38 del 2009, non consente di applicare una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti
sono riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per unampia serie di reati, tra cui quelli previsti dagli artt. 609-bis e
609-quater cod. pen., salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.
In accoglimento delle eccezioni dei difensori, il rimettente ritiene, peraltro, di dover sollevare questione di legittimità
costituzionale della citata disposizione.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come molti dei delitti richiamati nel comma 3 dellart. 275 cod. proc. pen., pur nella
loro indubbia gravità, siano comunque meno gravi di altri reati non richiamati, sulla base del raffronto delle relative pene
edittali (così, ad esempio, i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis cod. pen., inclusi nellelenco, sono puniti meno severamente
della cessione di sostanze stupefacenti o della rapina aggravata, viceversa esclusi). Risulterebbe, dunque, evidente come
la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la misura «estrema» della custodia in carcere non dipenda
da una valutazione «quantitativa» della gravità dei delitti, ma da una valutazione di tipo essenzialmente «qualitativo».
Anteriormente alla novella del 2009, la norma impugnata sanciva la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare
in carcere esclusivamente in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso e ai delitti posti in essere con metodi o
per finalità mafiose. Per tale verso, la disposizione rispondeva secondo il giudice a quo alla ratio di sollevare il giudice
penale dallonere di motivare la scelta della misura carceraria in particolari situazioni di pressione ambientale, determinate
dalla presenza dellassociazione di stampo mafioso, e soprattutto per questa ragione aveva superato il vaglio della Corte
costituzionale, sotto il profilo del rispetto dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, stante il coefficiente di pericolosità
per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva connaturato agli illeciti di quel genere (ordinanza
n. 450 del 1995).
La medesima ratio sarebbe ravvisabile anche in rapporto ad altre fattispecie criminose attualmente richiamate dallart. 275,
comma 3, cod. proc. pen., quali, segnatamente, i delitti di tipo associativo di cui allart. 416, sesto comma, cod. pen. e
allart. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); non, invece, in relazione ai reati
sessuali cui il legislatore del 2009 ha esteso la presunzione, trattandosi di delitti che, pur nella loro «gravità e odiosità»,
presentano «una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica», essendo offensivi di un bene giuridico prettamente individuale
(la libertà sessuale).
Sotto tale profilo, la norma novellata si porrebbe dunque in contrasto con lart. 3 Cost., avendo introdotto, con riferimento
ai reati in questione, un trattamento, da un lato, ingiustificatamente identico a quello previsto per i delitti già in precedenza
elencati dallo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen., e, dallaltro, ingiustificatamente più severo di quello stabilito
per altri reati.
Risulterebbero violati, di conseguenza, anche gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., giacché, ove venga a
cadere la «giustificazione cautelare della detenzione», lindagato o imputato si troverebbe a subire una immotivata compressione
della propria libertà personale e un trattamento riservato al colpevole, prima della sentenza di condanna.
2. Con ordinanza depositata il 28 maggio 2009 (r.o. n. 14 del 2010), il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo
art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di applicare gli arresti domiciliari o, comunque, misure
cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere in relazione ai delitti previsti dagli artt. 600-bis [primo
comma] e 609-bis cod. pen.
Il Tribunale rimettente è investito dellappello avverso lordinanza del 13 febbraio 2009, con la quale il Giudice per le
indagini preliminari del medesimo Tribunale ha respinto listanza di sostituzione con gli arresti domiciliari della misura
della custodia cautelare in carcere, applicata ad una persona indagata, tra laltro, per i delitti di induzione alla prostituzione
minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.) e di violenza sessuale aggravata dalle condizioni di minorata difesa della
vittima (artt. 609-bis e 61, numero 5, cod. pen.).
In via preliminare, il giudice a quo esclude che possa accogliersi la richiesta di revoca della misura cautelare formulata
dal difensore in udienza, giacché a prescindere dalla limitazione dellistanza iniziale alla sola sostituzione della misura
le esigenze cautelari, legate al pericolo di reiterazione delle condotte criminose, non sarebbero comunque venute integralmente
meno. Nondimeno, lassenza di elementi circa lesistenza di altre relazioni con ragazze minorenni, leffetto deterrente connesso
al tempo trascorso in carcere e le particolari contingenze in cui i delitti sarebbero maturati giustificherebbero una valutazione
di idoneità di misure meno gravose a fronteggiare il pericolo di ricaduta nel reato: onde sussisterebbero le condizioni per
sostituire, in accoglimento dellappello, la misura in atto con quella degli arresti domiciliari.
Tale operazione risulterebbe, tuttavia, preclusa dalla norma impugnata, la quale, nel testo vigente, stabilisce a fianco
di una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti
che non sussistono esigenze cautelari»), non rilevante nella specie una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura
cautelare della custodia in carcere, applicabile in rapporto ad unampia serie di reati, tra cui quelli che interessano.
Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione non si sottrarrebbe a dubbi di legittimità costituzionale.
Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, alla luce di una consolidata interpretazione giurisprudenziale,
la disposizione impugnata, in quanto norma processuale, deve ritenersi applicabile in base al principio tempus regit actum
anche alle misure cautelari da adottare per fatti delittuosi commessi, come nel caso di specie, anteriormente allentrata
in vigore della legge novellatrice.
Con riguardo, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come la disciplina delle misure cautelari personali
sia ispirata ai principi di proporzione, adeguatezza e graduazione, espressamente enunciati dallart. 2, numero 59, della
legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per lemanazione del nuovo codice
di procedura penale), la quale prevede, altresì, ladeguamento del nuovo codice di rito ai principi della Costituzione e alla
normativa convenzionale internazionale. Nellambito di tale normativa verrebbe in particolare rilievo lart. 5, paragrafi
1, lettera c), e 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti delluomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848: disposizione la cui inosservanza porrebbe
la norma interna in contrasto con lart. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore ordinario di rispettare i vincoli
derivanti dagli «obblighi internazionali».
In applicazione dei ricordati principi di proporzionalità, adeguatezza e graduazione, nel sistema del codice di procedura
penale, una volta accertata lesistenza di gravi indizi di colpevolezza e la sussistenza di esigenze cautelari, il giudice
è chiamato ad operare motivandola la scelta della misura. Nellipotesi, poi, in cui venga applicata la misura «massima»
della custodia in carcere, egli è tenuto ad esporre, a pena di nullità, le «concrete e specifiche ragioni per le quali le
esigenze di cui allart. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc.
pen.).
La norma impugnata derogherebbe chiaramente a tali principi, che pure trovano riconoscimento negli artt. 13 e 27 Cost., discendendo
secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 299 del 2005 «direttamente dalla natura servente
che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto alle finalità del processo, da un lato, ed alle esigenze
di tutela della collettività, dallaltro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi, il temporaneo sacrificio
della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva». Nella giurisprudenza costituzionale
risulterebbe, in effetti, costante laffermazione per cui, in ossequio al favor libertatis che ispira lart. 13 Cost., deve
essere comunque scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio della libertà personale: principio del quale proporzionalità
e adeguatezza rappresentano un corollario.
È ben vero che, secondo un orientamento altrettanto costante della giurisprudenza costituzionale, «mentre la sussistenza in
concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (lan della cautela) comporta, per definizione, laccertamento,
di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella
di affidare sempre e comunque al giudice lapprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo
della tutela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore». La scelta legislativa dovrebbe
essere, tuttavia, operata pur sempre nel «rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori
costituzionali coinvolti».
Nellipotesi in esame, per converso, risulterebbe leso proprio il canone della ragionevolezza, sotto il duplice profilo della
disparità di trattamento rispetto agli altri casi di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari,
e della disparità di trattamento «interna» tra le varie forme di manifestazione concreta delle fattispecie criminose considerate.
Le ipotesi nelle quali la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole limposizione da parte del legislatore della
misura cautelare più rigorosa presenterebbero, infatti, particolarità atte a rendere chiara e ben delimitata la ragione della
prevalenza sui principi di graduazione e di adeguatezza. Tali, in specie, i casi della pregressa evasione, che impedisce lapplicazione
della misura degli arresti domiciliari (artt. 276, comma 1-ter, e 284, comma 5-bis, cod. proc. pen., vagliati, rispettivamente,
dalle ordinanze n. 40 del 2002 e n. 130 del 2003), o dellessere il soggetto gravemente indiziato di un reato aggravato dalle
finalità di associazioni di tipo mafioso (ordinanza n. 450 del 1995).
Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per le fattispecie in esame. Risulterebbero difatti evidenti le differenze che intercorrono,
ad esempio, tra i reati sessuali in discorso e quello di cui allart. 416-bis cod. pen. Lappartenenza ad una associazione
mafiosa è un delitto di pericolo a carattere permanente, che implica un vincolo «totalizzante» di adesione ad un sodalizio
caratterizzato da una particolare forza intimidatrice e da un elevato grado di «diffusività» nel contesto ambientale, tali
da porre a rischio, per comune sentire, primari beni individuali e collettivi. Sarebbe, di conseguenza, pienamente giustificabile
la presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, la quale risulterebbe indispensabile per
neutralizzare la pericolosità del soggetto, determinandone il forzoso distacco dal sodalizio.
I delitti sessuali che vengono in rilievo costituiscono, di contro, reati di evento, a carattere non necessariamente permanente,
che abbracciano unampia gamma di condotte, tra loro estremamente diversificate, in quanto frutto di vari contesti ambientali
e relazioni interpersonali, talora meramente contingenti. In questa prospettiva, se rientra nella discrezionalità del legislatore
la scelta di inasprire la repressione di fatti avvertiti come particolarmente riprovevoli, quali quelli che aggrediscono la
libertà sessuale, risulterebbe, di contro, censurabile lindissolubile collegamento a tali fatti di una presunzione di pericolosità
dellautore.
Non consentendo di tener conto delle possibili varianti, la norma impugnata determinerebbe, dunque, la totale equiparazione
nel trattamento cautelare di situazioni diverse sul piano oggettivo e soggettivo. Essa genererebbe, in pari tempo, rischi
di confusione fra trattamento cautelare, improntato al principio del sacrificio minimo della libertà personale, e trattamento
punitivo, avente connotazioni più propriamente retributive, con possibile attribuzione alla cautela di una funzione di anticipazione
della pena, in contrasto con lart. 27 Cost.
Né varrebbe far leva, in senso contrario, sulla prevista esclusione della presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare
in carcere nelle ipotesi attenuate contemplate dalle stesse norme incriminatrici dei reati sessuali, trattandosi di ipotesi
«comunque estremamente circoscritte, secondo linterpretazione ormai consolidata di esse».
3. Il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 3 e 13 Cost., anche dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia con ordinanza depositata il
4 novembre 2009 (r.o. n. 66 del 2010), nella parte in cui non consente la sostituzione della misura della custodia cautelare
in carcere con gli arresti domiciliari in relazione al delitto previsto dallart. 609-quater, primo comma, numero 1), cod.
pen.
Il giudice a quo premette di essere investito dellistanza di revoca o di sostituzione della misura della custodia cautelare
in carcere, applicata ad una persona indagata per il delitto continuato di cui allarticolo ora citato, avendo indotto ad
atti sessuali un minore di atti quattordici; fatto commesso nei giorni 10 e 11 dicembre 2008.
Ad avviso del rimettente, non sussisterebbero le condizioni per la revoca della misura, permanendo le esigenze cautelari di
cui allart. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che, tuttavia tenuto conto dell«evoluzione migliorativa» del quadro
sulla cui base era stata disposta la custodia in carcere potrebbero essere adeguatamente soddisfatte con la misura meno
afflittiva degli arresti domiciliari.
Anche in questo caso, laccoglimento dellistanza di sostituzione risulterebbe, peraltro, impedito dal nuovo testo dellart.
275, comma 3, cod. proc. pen., che, per la sua natura processuale, dovrebbe ritenersi applicabile, in forza del principio
tempus regit actum, anche in relazione ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.
La nuova disciplina si porrebbe, tuttavia, in contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost. Essa metterebbe, difatti, in «crisi» i
principi di adeguatezza e graduazione che, in via generale, regolano lesercizio del potere cautelare, rovesciando la logica
del «minore sacrificio necessario» sottostante alla formulazione originaria dellart. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza
della quale è conferito ordinariamente al giudice della cautela il potere-dovere di distinguere i diversi fatti riconducibili
alla medesima figura di reato e la differente intensità delle esigenze di tutela, ai fini della scelta della misura meglio
rispondente al caso concreto.
È ben vero che la Corte costituzionale ha reputato ragionevoli, e dunque costituzionalmente compatibili, interventi normativi
che, in deroga ai suddetti principi, hanno introdotto presunzioni del tipo considerato nel sistema delle misure cautelari,
riconoscendo che «spetta al legislatore individuare il punto di equilibrio tra le diverse esigenze della minore restrizione
possibile della libertà personale e della effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso
la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale» (ordinanza n. 450 del 1995). Ciò è avvenuto, tuttavia, con riferimento
ad iniziative ben delimitate, volte a fronteggiare «emergenze» a carattere straordinario: quali, segnatamente, quelle di contrasto
della criminalità di tipo mafioso, la quale, per la complessità della sua struttura e i durevoli vincoli «di appartenenza,
radicamento e progettuali» che la connotano, esprime un elevato coefficiente di pericolosità per i valori fondamentali della
convivenza civile e dellordine democratico.
Mai, peraltro, la giurisprudenza costituzionale avrebbe autorizzato il legislatore a trasformare la regola dell«adeguatezza»
e della «graduazione» in eccezione, precludendo, in base ad ampie generalizzazioni, la possibilità di un trattamento individualizzante
rispetto al grado delle esigenze cautelari e sancendo, in via astratta, lirrilevanza di qualsiasi forma di evoluzione migliorativa
delle medesime.
Lestensione della presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere al «troppo ampio e
mutevole» catalogo di delitti oggi richiamati dalla norma censurata sarebbe avvenuta, in effetti, secondo logiche diverse
e del tutto incompatibili rispetto a quelle passate positivamente al vaglio del Giudice delle leggi.
Con particolare riguardo alla tutela penale della libertà sessuale, si sarebbe infatti al cospetto di fenomeni di devianza
individuale che si manifestano attraverso condotte della più diversa gravità, spesso conseguenti a patologie, le quali possono,
in un non trascurabile numero di casi, risultare contenibili, sul piano cautelare, con misure diverse dalla custodia in carcere:
donde un insopprimibile bisogno di differenziare, sulla base di un apprezzamento in concreto, i vari fatti riconducibili al
paradigma legale astratto.
È del resto costante, nella giurisprudenza costituzionale, laffermazione per cui, in ossequio al favor libertatis che ispira
lart. 13 Cost., la discrezionalità legislativa nella disciplina della materia considerata deve orientarsi verso scelte che
implichino il «minore sacrificio necessario». Con la conseguenza che ove la compressione dei principi di «adeguatezza» e «graduazione»
non trovi coerente ragione giustificatrice nel corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, essa costituirebbe
lesione dellart. 3 Cost., sotto il profilo dellirragionevolezza, attraverso un uso distorto della discrezionalità legislativa.
È quanto si sarebbe appunto verificato con la norma censurata, la quale, tramite la ricordata presunzione assoluta, avrebbe
ingiustamente parificato situazioni uguali, bensì, quanto a requisiti legali di fattispecie, ma diverse quanto a specifici
connotati di fatto: realizzando, così, un inaccettabile «eccesso di mezzi» rispetto al fine della prevenzione di nuovi delitti.
4. È intervenuto, in tutti i giudizi di costituzionalità, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dallAvvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
La difesa dello Stato osserva come la Corte costituzionale, proprio nellordinanza n. 450 del 1995, invocata dagli stessi
giudici rimettenti, abbia precisato che mentre non può prescindersi da un accertamento, in concreto, delleffettiva sussistenza
delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge, al contrario, la scelta del tipo di misura cautelare non impone di riservare
al giudice analogo potere di apprezzamento, «ben potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto
della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti».
Nella specie, la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la custodia in carcere non potrebbe essere
ritenuta irragionevole solo perché i reati sessuali presenterebbero una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica rispetto
ai delitti associativi di stampo mafioso, trattandosi di reati che comunque offendono il bene fondamentale, di rilevanza costituzionale,
della libertà personale.
Le fattispecie criminose in questione costituiscono, inoltre, reati di evento, dei quali non potrebbe essere apoditticamente
sostenuta la minore gravità rispetto ai delitti associativi, che sono pur sempre dei reati di pericolo.
La norma denunciata non violerebbe neppure lart. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva
di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale; né lart. 27, secondo comma, Cost., stante lestraneità
della presunzione di non colpevolezza allassetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale che
operano sul piano cautelare, del tutto distinto rispetto a quello concernente la condanna e lirrogazione della pena, così
come puntualizzato dalla citata ordinanza n. 450 del 1995.
Insussistente sarebbe, infine, la violazione dellart. 117, primo comma, Cost. denunciata dal Tribunale di Torino, tenuto
conto del fatto che, pure in presenza di disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti delluomo volte a
salvaguardare i diritti dei detenuti, la Corte di Strasburgo non si è mai espressa nel senso dellincompatibilità con tali
disposizioni di una norma nazionale quale quella denunciata.
5. Nel giudizio relativo allordinanza r.o. n. 310 del 2009 si è costituito C. A., persona sottoposta alle indagini nel
procedimento a quo, chiedendo che la norma impugnata sia dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui include
i reati «a sfondo sessuale» tra quelli per i quali è obbligatoriamente prevista la custodia in carcere in presenza di gravi
indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari.
Il difensore della parte privata rileva come, tramite lestensione ai reati sessuali della disciplina anteriormente prevista
per i soli delitti di associazione mafiosa o a questa collegati, il legislatore del 2009 abbia inteso rispondere, con un «segnale
forte», ad un «diffuso quanto generico bisogno di giustizia», suscitato da vicende concrete che hanno avuto ampia risonanza
nei mass media.
Il legislatore non avrebbe, tuttavia, tenuto conto del diverso spirito della norma originaria, dando vita ad una disciplina
di più che dubbia compatibilità costituzionale, secondo quanto rilevato dal Consiglio superiore della magistratura già in
sede di espressione del parere sul decreto-legge n. 11 del 2009. In rapporto ai reati sessuali non sarebbe, infatti, ravvisabile
la ragione giustificativa che ha indotto la Corte costituzionale a disattendere le censure mosse, sul piano del rispetto dei
principi di eguaglianza e di ragionevolezza, alla presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere sancita
in rapporto i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso.
Sarebbe, in effetti, evidente la disparità di trattamento fra colui che si trova indagato per un reato a sfondo sessuale,
il quale, in presenza di esigenze cautelari, viene obbligatoriamente sottoposto a custodia carceraria, senza possibilità di
attenuazione della stessa, e chi, indagato per reati diversi magari ben più gravi, non soltanto dal punto di vista della
pena edittale, ma anche per la sicurezza collettiva (quale, ad esempio, la cessione di sostanze stupefacenti a minori) può
invece fruire di misure meno gravose.
Conformemente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la norma censurata violerebbe, dunque, tanto lart. 3 Cost., per equiparazione
nel trattamento cautelare di situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse, sia in astratto che in concreto; quanto
gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., giacché lautomatismo applicativo della custodia in carcere per i reati
in questione renderebbe inoperanti i criteri di adeguatezza e proporzionalità, da cui deriva la necessità che sia sempre affidata
al giudice la determinazione della misura più consona al caso concreto, trasformando indebitamente lo strumento cautelare
in una anticipazione della pena.
Considerato in diritto
1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno, il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, e il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia dubitano della legittimità costituzionale dellart. 275, comma
3, del codice di procedura penale, come modificato dallart. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e
meno afflittive della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluni reati,
oggetto dei procedimenti a quibus: vale a dire per i delitti di violenza sessuale (art. 609-bis del codice penale: ordinanze
r.o. n. 311 del 2009 e n. 14 del 2010), atti sessuali con minorenne (art. 609-quater del medesimo codice: ordinanze n. 310
del 2009 e n. 66 del 2010, la seconda delle quali riferisce, peraltro, più specificamente la censura alla fattispecie degli
atti sessuali con minore di anni quattordici, prevista dal numero 1 del primo comma di detto articolo), induzione o sfruttamento
della prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.: ordinanza r.o. n. 14 del 2010).
Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma censurata violerebbe lart. 3 della Costituzione sotto plurimi profili.
In primo luogo secondo il Giudice veneziano per la irrazionale deroga da essa apportata ai principi di adeguatezza, proporzionalità
e graduazione, che regolano, in via generale, lesercizio del potere cautelare: deroga che non risulterebbe sorretta, quanto
ai delitti a sfondo sessuale, da ragioni giustificatrici analoghe a quelle che hanno indotto questa Corte a ritenere costituzionalmente
legittimo lo speciale regime cautelare in discussione rispetto alla criminalità di tipo mafioso, cui esso era in precedenza
circoscritto.
In secondo luogo a parere del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno per la ingiustificata equiparazione
dei reati considerati, i quali, pur nella loro gravità e «odiosità», offendono un bene individuale, ai delitti di stampo mafioso,
che mettono invece in pericolo le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva.
In terzo luogo tanto secondo il Giudice bellunese che secondo il Tribunale di Torino per la sottoposizione di detti reati
ad un trattamento cautelare ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altre fattispecie criminose, cui la disciplina
censurata non è estesa, ancorché punite con pene più gravi.
Da ultimo a parere dei Giudici per le indagini preliminari bellunese e veneziano per lirragionevole equiparazione, sul
piano cautelare, delle varie condotte integrative dei delitti cui attengono le censure dei rimettenti (violenza sessuale e
atti sessuali con minorenne), le quali potrebbero risultare, in concreto, marcatamente differenziate tra loro sul piano oggettivo
e soggettivo.
I giudici a quibus denunciano altresì, concordemente, la violazione dellart. 13 Cost., rilevando come la norma impugnata
venga ad imporre un sacrificio della libertà personale dellindagato o dellimputato superiore a quello minimo che, nelle
circostanze concrete, può risultare necessario e sufficiente al fine di soddisfare le esigenze cautelari.
Risulterebbe leso, ancora secondo il Giudice bellunese e il Tribunale di Torino lart. 27, secondo comma, Cost., in quanto
la previsione normativa sottoposta a scrutinio finirebbe per attribuire al trattamento cautelare una funzione di anticipazione
della pena, contrastante con la presunzione di non colpevolezza.
Il solo Tribunale di Torino prospetta, infine, la violazione dellart. 117, primo comma, Cost., per asserito contrasto della
norma censurata con lart. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti delluomo e
delle libertà fondamentali.
2. Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative alla medesima norma, sicché i giudizi vanno riuniti
per essere definiti con unica decisione.
3. In via preliminare, va osservato che si presenta del tutto plausibile la soluzione interpretativa sulla cui base anche
il Tribunale di Torino e il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia affermano la rilevanza delle questioni
nei procedimenti a quibus, benché questi abbiano ad oggetto imputazioni di fatti commessi prima della vigenza della norma
censurata.
La giurisprudenza di legittimità risulta, infatti, concorde nel ritenere che il nuovo testo dellart. 275, comma 3, cod. proc.
pen., introdotto dalla novella del 2009, sia destinato a trovare applicazione in forza del principio tempus regit actum,
che disciplina la successione delle norme processuali anche nei procedimenti in corso, relativi appunto a fatti commessi
anteriormente alla data di entrata in vigore della novella suddetta: ciò, quantomeno allorché si discuta, come nei casi di
specie, di istanze di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, precedentemente applicata, con altra
misura meno gravosa (oscillazioni giurisprudenziali si riscontrano solo in rapporto allipotesi inversa).
4. Nel merito, la questione è fondata in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei limiti
di seguito specificati.
5. La disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nellambito della disciplina codicistica delle misure cautelari
personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione in varie qualità,
modalità e tempi della libertà personale dellindagato o dellimputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio
definitivo sulla sua responsabilità.
In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilità
della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione
dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un
atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione
di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale limputato non è considerato colpevole sino alla
condanna definitiva.
Lantinomia tra tale presunzione e lespressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante
iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini
di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dellindagato o imputato nel corso del procedimento
siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate
da quelle della pena, irrogabile solo dopo laccertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure
nella loro specie più gravi ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dallart.
27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della
coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.
Da ciò consegue come questa Corte ebbe a rilevare sin dalla sentenza n. 64 del 1970 che lapplicazione delle misure cautelari
non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere direttamente
o indirettamente a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso
scopo (cosiddetto vuoto dei fini). Il legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di
privazione della libertà, ad individuare soprattutto allinterno del procedimento e talora anche allesterno (sentenza n.
1 del 1980) esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte entro tempi predeterminati
(art. 13, quinto comma, Cost.) durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi
meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via
definitiva.
Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento è che la disciplina della materia debba essere
ispirata al criterio del minore sacrificio necessario (sentenza n. 299 del 2005): la compressione della libertà personale
dellindagato o dellimputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari
riconoscibili nel caso concreto.
Sul versante della qualità delle misure, ne consegue che il ricorso alle forme di restrizione più intense e particolarmente
a quella massima della custodia carceraria deve ritenersi consentito solo quando le esigenze processuali o extraprocessuali,
cui il trattamento cautelare è servente, non possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisività. Questo principio
è stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei diritti delluomo, secondo la quale, in riferimento alla
previsione dellart. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema
che si giustifica solamente allorché tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009,
Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelièvre contro Belgio).
Il criterio del minore sacrificio necessario impegna, dunque, in linea di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare
il sistema cautelare secondo il modello della pluralità graduata, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate
da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dallaltra, a prefigurare meccanismi individualizzati di selezione
del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.
6. Il complesso di indicazioni costituzionali dianzi evidenziate trova puntuale eco nella disciplina dettata dal codice
di procedura penale, in attuazione della direttiva n. 59 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81.
Nella cornice di tale disciplina, la gravità in astratto dei reati oggetto del procedimento rileva, difatti in linea di
principio solo come limite generale di applicazione delle misure cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come
quantum del limite temporale massimo di durata (ai fini della cosiddetta scarcerazione automatica: art. 303 cod. proc. pen.),
non come criterio di scelta sul se e sulla specie della misura.
Un giudizio di gravità può essere legittimato, in determinate prospettive, solo sul fatto concreto oggetto del procedimento
(ad esempio, artt. 274, comma 1, lettera c, e 275, comma 2, cod. proc. pen.) e in via generale è richiesto, come condizione
di applicazione delle misure, sugli indizi a carico: è la cosiddetta gravità indiziaria prevista dallart. 273, comma 1, dello
stesso codice.
Si tratta, peraltro, di condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo la gravità indiziaria sempre accompagnarsi ad esigenze
cautelari, specificamente individuate dalla legge, legate alla tutela dellacquisizione o della genuinità della prova, al
pericolo di fuga dellimputato ovvero al rischio di commissione di gravi reati o di reati della stessa specie di quello per
cui si procede (art. 274 cod. proc. pen.).
In accordo con il modello sopra indicato, viene altresì tipizzato un ventaglio di misure, di gravità crescente in relazione
allincidenza sulla libertà personale: divieto di espatrio (art. 281), obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art.
282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), divieto e obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai tempi
e ai limiti territoriali: art. 283), arresti domiciliari (variamente modulabili anche in luoghi diversi dallabitazione propria
del soggetto, vale a dire in altri luoghi privati o in luoghi pubblici di cura o di assistenza: art. 284), custodia cautelare
in carcere (art. 285).
Di particolare rilievo, ai presenti fini, sono poi i criteri di scelta delle misure nel novero di quelle tipizzate. Il primo
e fondamentale è quello di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il quale, «nel disporre le misure, il giudice tiene conto
della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto».
A questo precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto, sancito a pena di nullità (art. 292, comma
2, lettera c, cod. proc. pen.).
È di tutta evidenza come proprio nel criterio di adeguatezza, correlato alla gamma graduata delle misure, trovi espressione
il principio implicato dal quadro costituzionale di riferimento del minore sacrificio necessario: entro il ventaglio
delle alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve infatti prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente
idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesività determinata
dalla coercizione endoprocedimentale.
A completamento e specificazione del criterio in parola è, poi, previsto che la più gravosa delle misure cautelari personali
coercitive, vale a dire la custodia cautelare carceraria, «può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata»
(art. 275, comma 3, primo periodo, cod. proc. pen.). Su ciò il giudice che la applica è tenuto a dare, a pena di nullità,
una motivazione appropriata, mediante «lesposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui allarticolo
274 non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.). Si tratta della
natura cosiddetta residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di questa misura.
È inoltre enunciato il criterio di proporzionalità, secondo il quale «ogni misura deve essere proporzionata allentità del
fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.).
7. Tratto saliente complessivo del regime ora ricordato conforme al quadro costituzionale di riferimento è quello di
non prevedere automatismi né presunzioni. Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per lapplicazione di una
misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta,
alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piena individualizzazione
della coercizione cautelare.
Da tali coordinate si discosta in modo vistoso assumendo, con ciò, carattere derogatorio ed eccezionale la disciplina
attualmente espressa dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dellart. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario
del codice, ma in esso inserita via via, con lo strumento della decretazione durgenza, in un primo tempo tramite laggiunta
del solo secondo periodo al citato art. 275, comma 3, sulla spinta di una situazione apprezzata come emergenziale, legata
segnatamente alla rilevata recrudescenza del fenomeno della criminalità mafiosa e di altri gravi o gravissimi reati (art.
5, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata
e di trasparenza e buon andamento dellattività amministrativa», convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991,
n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di custodia cautelare,
di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per
la copertura di uffici giudiziari non richiesti», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356); successivamente
(attraverso lart. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione
dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un contenimento di questa speciale disciplina, mediante
una drastica riduzione dei reati a essa assoggettati a quelli di cui allart. 416-bis cod. pen. ovvero commessi avvalendosi
delle condizioni previste da detto articolo o per agevolare le associazioni ivi indicate; infine, nuovamente e notevolmente
ampliando il novero dei reati stessi, con le addizioni recate al vigente secondo periodo e con quelle ulteriori incluse nel
nuovo terzo periodo del comma 3 dellart. 275 (mediante gli interventi parimenti emergenziali dellart. 2 del decreto-legge
23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38).
In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni delitti, analiticamente elencati, ove ricorra la condizione
della gravità indiziaria, il giudice dispone senzaltro lapplicazione della misura cautelare della custodia carceraria, «salvo
che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».
Per comune opinione, la previsione ora ricordata racchiude una duplice presunzione. La prima, a carattere relativo, attiene
alle esigenze cautelari, che il giudice deve considerare sussistenti, quante volte non consti la prova della loro mancanza
(prova di tipo negativo, dunque, che deve necessariamente proiettarsi su ciascuna delle fattispecie identificate dallart.
274 cod. proc. pen.). La seconda, a carattere assoluto, concerne la scelta della misura: ove la presunzione relativa non risulti
vinta, subentra un apprezzamento legale, vincolante e incontrovertibile, di adeguatezza della sola custodia carceraria a fronteggiare
le esigenze presupposte, con conseguente esclusione di ogni soluzione intermedia tra questa e lo stato di piena libertà
dellimputato.
Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in una marcata attenuazione dellobbligo di motivazione dei provvedimenti
applicativi della custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, difatti,
in presenza di gravi indizi di colpevolezza per uno dei reati considerati, il giudice assolve il suddetto obbligo dando semplicemente
atto dellinesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, senza dovere specificamente
motivare sul punto; mentre solo nel caso in cui lindagato o la sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, egli
sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione. Non vi sarà luogo, in ogni caso,
ad esporre quanto ordinariamente richiesto dalla seconda parte delle lettere c) e c-bis) dellart. 292, comma 2, cod. proc.
pen., rimanendo irrilevante, a fronte dellapprezzamento legale, leventuale convinzione del giudice che le esigenze cautelari
possano essere concretamente soddisfatte tramite una misura cautelare meno incisiva di quella massima.
Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario avevano indotto il legislatore nellambito di un più generale
disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari a delimitare in senso restrittivo il campo di applicazione
della disciplina derogatoria, costituente un vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai
suoi esordi, ad una nutrita e disparata serie di figure criminose, il regime speciale era stato infatti circoscritto a partire
dal 1995, come dianzi ricordato ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5, comma 1, della citata
legge n. 332 del 1995).
In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio tanto di questa Corte che della Corte europea dei diritti delluomo.
Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale
astratta (come reati associativi e, dunque, permanenti entro un contesto di criminalità organizzata, o come reati a tale contesto
comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» nei relativi procedimenti le presunzioni in questione, e segnatamente
quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il
periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.
In particolare, con lordinanza n. 450 del 1995, questa Corte aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli artt.
3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari («lan
della cautela») non può prescindere da un accertamento in concreto, lindividuazione della misura da applicare («il quomodo»)
non comporta indefettibilmente laffidamento al giudice di analogo potere di apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata
anche in termini generali dal legislatore, purché «nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento
dei valori costituzionali coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003 e n. 40 del 2002). Nella specie,
deponeva nel senso della ragionevolezza della soluzione adottata «la delimitazione della norma allarea dei delitti di criminalità
organizzata di tipo mafioso», tenuto conto del «coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e
della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato».
A sua volta, la Corte di Strasburgo pronunciando su un ricorso volto a denunciare lirragionevole durata della custodia
cautelare in carcere applicata ad un indagato per il delitto di cui allart. 416-bis cod. pen. e la conseguente violazione
dellart. 5, paragrafo 3, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti delluomo non aveva mancato di rilevare
come una presunzione quale quella prevista dallart. 275, comma 3, cod. proc. pen. potesse, in effetti, «impedire al giudice
di adattare la misura cautelare alle esigenze del caso concreto» e, dunque, «apparire eccessivamente rigida». Nondimeno, secondo
la Corte europea, la disciplina in esame rimaneva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalità
organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria
delle persone accusate del delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro
ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle
organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia).
8. È su questo quadro che si innesta lulteriore intervento novellistico che dà origine agli odierni quesiti di costituzionalità,
operato con il decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009.
Compiendo un salto di qualità a ritroso, rispetto alla novella del 1995, lart. 2, comma 1, lettere a) e a-bis), del citato
provvedimento durgenza riespande lambito di applicazione della disciplina eccezionale ai procedimenti aventi ad oggetto
numerosi altri reati, individuati in parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che descrivono le relative fattispecie
e per il resto tramite rinvio mediato alle norme processuali di cui allart. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.;
reati tra i quali si annoverano quelli considerati dalle ordinanze di rimessione, e cioè linduzione o sfruttamento della
prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.); la violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.), salvo che ricorra
lattenuante di cui al terzo comma («casi di minore gravità»); gli atti sessuali con minorenne (art. 609-quater cod. pen.),
salvo che ricorra lattenuante di cui al quarto comma («casi di minore gravità»).
È agevole constatare come le estensioni operate successivamente implementate da modifiche legislative che non hanno interessato
direttamente la norma impugnata (ad esempio, art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il «Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dellimmigrazione e norme sulla condizione dello straniero», aggiunto dalla legge
15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica») riguardino fattispecie penali in larga misura
eterogenee fra loro (fatta eccezione per i delitti a sfondo sessuale), e cioè poste a tutela di differenti beni giuridici,
assai diversamente strutturate e con trattamenti sanzionatori anche notevolmente differenti (si pensi allomicidio volontario,
al sequestro di persona a scopo di estorsione, allassociazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ai
delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione) e accomunate unicamente dallessere i relativi procedimenti assoggettati
al regime cautelare speciale in questione.
9. Tutte le ordinanze di rimessione censurano la norma impugnata limitatamente al fatto che non consente di applicare una
misura cautelare meno afflittiva nei procedimenti a quibus, aventi ad oggetto i delitti sessuali dianzi citati. È, dunque,
sottoposta allo scrutinio di costituzionalità esclusivamente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare
carceraria, mentre resta fuori del devoluto la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari: dandosi per scontata
questa sussistenza, ciò che rileva, secondo i rimettenti, e determina lillegittimità costituzionale è la lesione del principio
del minore sacrificio necessario.
10. La lesione denunciata è effettivamente riscontrabile. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della
persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dellid quod plerumque accidit». In particolare, lirragionevolezza della presunzione
assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010).
Per questo verso, alle figure criminose che interessano non può estendersi la ratio già ritenuta, sia da questa Corte che
dalla Corte europea dei diritti delluomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti
relativi a delitti di mafia in senso stretto: vale a dire che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni
criminologiche connesse alla circostanza che lappartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica unadesione permanente
ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali
e dotato di particolare forza intimidatrice deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una
regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia
in carcere (non essendo le misure minori sufficienti a troncare i rapporti tra lindiziato e lambito delinquenziale di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Con riguardo ai delitti sessuali in considerazione non è consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza,
in questo caso, è ben diversa: ed è che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in questione (pur a prescindere dalle
ipotesi attenuate e considerando quelle ordinarie) non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, ma anche e soprattutto
possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure.
Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono
meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente
con la massima misura.
Altrettanto può dirsi per quei fatti che si manifestano allinterno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o
scolastico o di particolari comunità), in relazione ai quali le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure diverse
dalla custodia carceraria e che già il legislatore ha previsto, proprio in via specifica, costituite dallesclusione coatta
in vario modo e misura dal contesto medesimo: gli arresti domiciliari in luogo diverso dalla abitazione del soggetto (art.
284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati anche da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto
elettronico: art. 275-bis), lobbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283), lallontanamento
dalla casa familiare (art. 282-bis, ove al comma 6 sono specificamente evocati anche i casi in cui si proceda per taluno dei
delitti a sfondo sessuale qui in esame).
A riprova conclusiva della molteplicità e varietà dei fatti punibili per i titoli in esame si può notare che il delitto di
violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) già in astratto comprende pur tenendo conto della sottrazione al regime cautelare
speciale delle ipotesi attenuate condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto, quali quelle
corrispondenti alle previgenti fattispecie criminose della violenza carnale e degli atti di libidine violenti. Ciò rende anche
più debole la base statistica della presunzione assoluta considerata.
11. La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro verso, nella
gravità astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia come mostra invece di ritenere lAvvocatura
generale dello Stato in rapporto alla natura (e, in particolare, allelevato rango) dellinteresse tutelato. Questi parametri
giocano un ruolo di rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la determinazione
della sanzione, ma risultano, di per sé, inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza
di esigenze cautelari e per quanto qui rileva del loro grado, che condiziona lidentificazione delle misure idonee a soddisfarle.
Daltra parte, linteresse tutelato penalmente è, nella generalità dei casi, un interesse primario, dotato di diretto o indiretto
aggancio costituzionale, invocando il quale si potrebbe allargare indefinitamente il novero dei reati sottratti in modo assoluto
al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di questultimo facendo leva sullincensurabilità della discrezionalità
legislativa.
Ove dovesse aversi riguardo, poi, alla misura edittale della pena, la scelta del legislatore non potrebbe che apparire palesemente
scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a gravissimi delitti puniti con pene più severe di quelli che qui vengono
in rilievo (taluni addirittura con lergastolo) restano, infatti, sottratti al regime cautelare speciale: basti pensare
alla strage (art. 422 cod. pen.), alla devastazione o saccheggio (art. 419 cod. pen.), alla rapina e allestorsione aggravate
(artt. 628, terzo comma, e 629, secondo comma, cod. pen.), alla produzione, traffico e detenzione illeciti di stupefacenti,
anche con riguardo allipotesi aggravata di cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a, del d.P.R. 9 ottobre
1990, n. 309).
12. Tanto meno, infine, la presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione nellesigenza di contrastare
situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti.
Proprio questa, per contro, è la convinzione che traspare dai lavori parlamentari relativi alla novella del 2009 e che ha
portato ad attribuire carattere emergenziale allesigenza di precludere lapplicazione di misure cautelari attenuate nei
confronti degli indiziati di delitti di tipo sessuale.
La norma oggetto di scrutinio si colloca, infatti, nel corpo delle disposizioni racchiuse nel capo I del decreto-legge n.
11 del 2009 volte ad un generale inasprimento del regime cautelare, repressivo e penitenziario dei delitti in questione:
inasprimento che, nellidea dei compilatori, rappresenterebbe la necessaria risposta alla preoccupazione diffusasi nellopinione
pubblica, di fronte alla percepita ingravescenza di tale deplorevole forma di criminalità (esplicita, al riguardo, la
relazione al disegno di legge di conversione A.C. 2232).
La eliminazione o riduzione dellallarme sociale cagionato dal reato del quale limputato è accusato, o dal diffondersi di
reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere
peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di
rimuovere lallarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale)
è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha
provocato lallarme e la reazione della società.
Non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dellacuirsi del sentimento di riprovazione
sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose,
quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla
comminatoria di pene adeguate, da infliggere allesito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei
reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza.
Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio di adeguatezza, in difetto di una ratio correlata alla struttura
delle fattispecie criminose di riferimento, cumulandosi alla presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari,
orienta chiaramente lo statuto custodiale in conformità alle evidenziate risultanze dei lavori parlamentari verso finalità
metacautelari, che nel disegno costituzionale devono essere riservate esclusivamente alla sanzione penale inflitta allesito
di un giudizio definitivo di responsabilità.
13. Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque concludere che la norma impugnata viola, in parte qua,
sia lart. 3 Cost., per lingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti
i delitti di mafia nonché per lirrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete
riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia lart. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime
ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, lart. 27, secondo comma, Cost., in quanto
attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo e tenuto conto dei limiti delle questioni devolute allo scrutinio di
questa Corte, la compatibilità costituzionale della norma censurata non è peraltro necessario rimuovere integralmente la presunzione
di cui discute.
Ciò che rende costituzionalmente inaccettabile la presunzione stessa è per certo il suo carattere assoluto, che si risolve
in una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del minore sacrificio necessario, anche quando sussistano
come nei casi oggetto dei procedimenti a quibus, secondo quanto riferiscono i giudici rimettenti specifici elementi da
cui desumere, in positivo, la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere.
La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza di questultima atta a realizzare una semplificazione del
procedimento probatorio suggerita da taluni aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da elementi probatori di segno contrario non eccede, per contro, i limiti di compatibilità con i parametri evocati, rimanendo
per tale verso non censurabile lapprezzamento legislativo, in rapporto alle caratteristiche dei reati in questione, della
ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (per una conclusione analoga, con riguardo alla fattispecie
da essa esaminata, sentenza n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque lirrazionale equiparazione dei procedimenti
relativi a tali reati a quelli concernenti la criminalità di tipo mafioso e si lascia spazio alla differenziazione delle varie
fattispecie concrete riconducibili ai paradigmi punitivi astratti.
I reati in questione restano assoggettati ad un regime cautelare speciale, tuttavia attenuato dalla natura relativa e quindi
superabile della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria e, perciò, non incompatibile con il quadro costituzionale
di riferimento.
Lart. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella
parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli
600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresì, lipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte
con altre misure.
14. La censura formulata dal Tribunale di Torino in relazione allart. 117, primo comma, Cost. resta assorbita.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara lillegittimità costituzionale dellart. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come
modificato dallart. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n.
38, nella parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli
articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo
che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresì, lipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono
essere soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA